Giustizia lumaca? La legge Pinto risarcisce … con calma!

Quante volte, intentato un giudizio (che di solito non si intraprende per leggerezza o vanagloria), questo arriva a raggiungere tempi biblici tenendoci, nel frattempo, in una sorta di oblio o incubo, oltre che di stillicidio economico e costante pressione psicologica: una vera e propria prigionia.

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È in vigore in Italia, dal 24 marzo 2001, una legge che riconosce il diritto ad essere risarcito con un indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del nostro processo. È la legge 24 marzo 2001 n. 89 (G.U. 03.04.2001), che dà attuazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la cosiddetta “Legge Pinto” (dal nome del suo estensore), “durata ragionevole del processo ed equa riparazione”, della quale però ci viene detto poco e si sa ancora meno.

Il cittadino va sempre messo a conoscenza di ciò che paga, di quello che gli viene richiesto (estorto), dei suoi doveri e obblighi, ma è meglio che non sappia cosa eventualmente gli è dovuto a titolo di risarcimento, quest’ultimo mai riconosciuto spontaneamente o di diritto ma solo ed unicamente previa richiesta al fine, la quale, come vedremo più in seguito, lascia spazio a sibilline dissuasioni in merito all’accettazione o meno della domanda nel momento in cui questa, se non accolta, potrebbe anche produrre delle sanzioni (incredibile!).

Questa norma, considerato che anch’essa nei tempi di risarcimento è risultata essere piuttosto lenta, nel tempo è stata aggiornata con le modifiche introdotte dal Decreto Legge 8 aprile 2013 n. 35, convertito con modificazioni nella Legge 6 giugno 2013 n. 64 e dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, con modificazioni nella Legge di conversione 7 agosto 2012 n. 134 recante «Misure urgenti per la crescita del Paese.» (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 187 del giorno 11/08/2012 – Suppl. Ordinario n. 171).

Naturalmente la lungaggine della causa – e dunque la sua irragionevole durata per la quale si chiede la cosiddetta equa riparazione – non dev’essere dovuta a inattività delle parti o ad espedienti vari per protrarla nel tempo, ma solo ed unicamente per ragioni che non sono dipese dalle reciproche volontà, bensì da un’inerzia delle attività processuali nel loro burocratico percorso.

Detto questo, cerchiamo di capire meglio cosa promuove questa legge.

Il primo accertamento da fare, chiaramente con l’ausilio dell’avvocato che ci assiste, è la verifica dei tempi trascorsi per uno o più procedimenti che ci riguardano e già conclusi. La partecipazione del professionista, in questo caso e in questa fase, è indispensabile a calcolare i tempi e soprattutto i motivi (che non devono essere imputabili alle parti) – importanti ai fini del riconoscimento del risarcimento – che hanno dilungato la durata del processo oltre misura. Per far ciò è sufficiente anche verificare i verbali di causa (che tra l’altro vanno allegati), in cui saranno riportati gli avvenimenti durante le udienze (eventuali rinvii d’ufficio, rimandi per la precisazione delle conclusioni molto lunghi, tempi irragionevoli per l’emissione di sentenza definitiva o provvedimenti in corso di causa, ecc. ecc.).

Un processo, perché si possa ritenere di “durata ragionevole”, non deve protrarsi per oltre sei anni complessivamente (fissando tre anni per il primo grado, due anni per l’appello e un anno per la Cassazione).

L’art. 2 (“Diritto all’equa riparazione”) di detta legge ha individuato dei tempi ben precisi, così come si evince dai commi che seguono:

“2-bis. Si considera rispettato il termine ragionevole di cui al comma 1 se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Ai fini del computo della durata il processo si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell’atto di citazione. Si considera rispettato il termine ragionevole se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni, e se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni. Il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari.

2-ter. Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.”

Ci sono i casi in cui non è riconosciuto alcun indennizzo e, tra questi, quello di non risultare vittorioso nel processo, così come riporta il comma “2-quinquies”.

La riforma della legge Pinto, mentre da un lato ha statuito di accorciare i tempi della procedura di risarcimento, dall’altro ha anche abbassato la determinazione delle somme da rifondere al cittadino che ne fa richiesta, quantificando l’eventuale indennizzo da un minimo di 500 euro ad un massimo di 1.500 euro per ogni anno o frazione di questo che eccede la durata considerata ragionevole del processo. Ecco nel dettaglio cosa afferma il sottostante art. 2-bis:

“Art. 2-bis – Misura dell’indennizzo.

1. Il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo.

2. L’indennizzo è determinato a norma dell’articolo 2056 del codice civile, tenendo conto:

 a) dell’esito del processo nel quale si è verificata la violazione di cui al comma 1 dell’articolo 2;

 b) del comportamento del giudice e delle parti;

 c) della natura degli interessi coinvolti;

 d) del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte.

3. La misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice.”

L’articolo 3 della legge Pinto spiega nel dettaglio a chi va proposta domanda di equa riparazione (cioè presso la Corte di Appello competente, purché diversa da quella del comprensorio dove è stato pronunziato il giudizio) e nei confronti di quali Ministeri (“2. Il ricorso è proposto nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare. Negli altri casi è proposto nei confronti del Ministro dell’economia e delle finanze”); illustra inoltre i documenti da allegare al ricorso (le cui copie autentiche rappresentano un notevole aggravio economico per il proponente il ricorso) e l’iter che segue la domanda: se accolta, se respinta, le modalità e i termini di attribuzione dell’indennizzo.

È importante sapere che la domanda per ottenere l’indennizzo di cui si tratta dev’essere inoltrata entro e non oltre “sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva” e, così come prescrive sempre l’art. 3, “il presidente della corte d’appello, o un magistrato della corte a tal fine designato, provvede sulla domanda di equa riparazione con decreto motivato da emettere entro trenta giorni dal deposito del ricorso”.

Precedentemente, era consentito presentare ricorso anche durante il procedimento, tanto che il vecchio articolo 4 (“Termine e condizioni di proponibilità”) recitava: “1. La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”.

Non mi sorprende che tale possibilità sia stata ora esclusa, stante che in passato simili decisioni non hanno poi dato una giusta e gradita prospettiva al processo stesso, tanto da rischiare di inficiarne l’esito. Congetture? Non lo so, ma a scanso di equivoci … a pensar male non si sbaglia mai!

Massima attenzione va data ai termini da rispettare sia nel caso che il ricorso venga accolto (“5. Se accoglie il ricorso, il giudice ingiunge all’amministrazione contro cui è stata proposta la domanda di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione. Nel decreto il giudice liquida le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento”), sia in caso contrario (“6. Se il ricorso è in tutto o in parte respinto la domanda non può essere riproposta, ma la parte può fare opposizione a norma dell’articolo 5-ter”).

Non potevano mancare le sanzioni, il cosiddetto deterrente:

“Art. 5-quater. – Sanzioni processuali.

1. Con il decreto di cui all’articolo 3, comma 4, ovvero con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione, il giudice, quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 10.000.

Non a caso, prima di intraprendere questo tipo di azione, è opportuno che, insieme al proprio legale, la cui presenza e assistenza è sempre auspicabile, si valuti bene se vi sono i presupposti, anche perché la gratuità del procedimento non è più consentita. Anzi, a tal proposito, è bene sapere che per questo tipo di azione, se il professionista scelto è iscritto agli elenchi degli avvocati abilitati al Patrocinio a Spese dello Stato e se sussistono i requisiti di legge, si può fare ricorso al gratuito patrocinio.

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