Invalidità civile totale. Piove sul bagnato

Di cifre negli ultimi tempi ne abbiamo sentite e lette tantissime: da quelle saccheggiate a quelle elargite; da quelle sborsate a quelle imposte e pretese, ma per tagliare i costi l’attenzione viene sempre e comunque rivolta e consumata in danno delle persone più deboli e ancora peggio GIÀ DEBOLI.

Questa volta ad essere stati presi di mira sono gli invalidi civili totali (e non anche quelli parziali), già “fortunati” per il loro stato di salute e ancor più “avvantaggiati” da una pensione di inabilità risibile di ben 275,87 euro già rivalutata per il 2013.

Per meglio comprendere l’argomento, è appena il caso di fare qualche precisazione sul termine “pensione di invalidità”. È la legge n. 118/1971, più specificamente l’art. 12, che la stabilisce e spetta a chi, dopo averne fatto richiesta ed essere stato sottoposto a visita da parte di una Commissione medica per le invalidità civili, viene riconosciuto totalmente inabile al lavoro. Se si trova pure in uno stato di disagio economico (ovvero non può disporre di un reddito superiore a dei limiti che vengono fissati annualmente dalla Direzione Centrale delle Prestazioni dell’INPS), gli viene erogata una pensione che, dopo il compimento dei 65 anni, viene trasformata in assegno sociale.

La novità in merito a quanto sopra sta nel fatto che, da quest’anno, l’invalido al 100% (totale appunto), per poter ancora percepire la pensione di inabilità sopra detta, non dovrà superare, indifferentemente se solo o sposato, il limite di reddito annuo lordo di 16.127,30 euro, e pure facendo cumulo col provento del coniuge, dunque rendendo quasi impossibile questo “arricchimento illecito”. Incredibile!

Questa bravata muove da una circolare Inps, la n. 149 del 28 dicembre 2012, che ha applicato quanto previsto dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4677 del 25 febbraio 2011, fissando –  tra le altre cose – gli importi e i limiti di reddito per poter fruire di pensioni, assegni, indennità e altro. Inutile aggiungere che si tratta di un provvedimento ingiusto e incoerente in quanto quel limite di reddito, oltre il quale si perde il diritto alla pensione di inabilità, rimane invariato sia che il beneficiario sia solo, sia se coniugato.

La beffa sta nel fatto che tutto sembra riconducibile ad un errore che è stato creato nella legge del febbraio 1980, la n. 33, quando, come sempre nella sbadataggine più completa, è stato usato il termine “redditi personali dell’invalido” solo per gli assegni (che vengono erogati nei casi di invalidità parziale) e non anche per le pensioni di invalidità (invalidi totali 100%), impedendo così, di fatto, che il limite reddituale fosse solo riferito al beneficiario e non anche esteso ad altro componente il nucleo familiare come invece oggi pretenderebbe l’Inps.

È ovvio che, solo leggendo le date, i dubbi sorgono: perché finora non era mai stata applicata tale norma del 1980? Perché, se la sentenza della Corte di Cassazione è del 2011, l’Inps non ha applicato da subito tale prescrizione? Seppur comprensibile l’azione di repressione nei confronti dei cosiddetti falsi invalidi, credo non debba per questo essere sacrificato l’intero stato sociale già penalizzato su vari fronti, non ultimo quello della personale fragile condizione fisica. Non dimentichiamoci che i bisognosi, compresi i disabili, sono persone da assistere e sostenere, e non da sopprimere o umiliare.

Ho letto da più parti che, riguardo a questa determinazione dell’Inps, si stanno levando proteste dei cittadini, con anche Associazioni e Sindacati che chiedono con vigore di fare un passo indietro e di rivedere questo atto immorale ancora perpetrato in danno delle classi più deboli e, in questo caso, anche con disagi fisici. Ci aspettiamo un intervento incisivo e decisivo.

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